Articoli di Giovanni Papini

Anno 1927


Prefazione alle rime di Michelangiolo


Pubblicato su: L'Avvenire d'Italia, Bologna, anno XXXII, fasc. 294, p. 3
Data: 11 dicembre 1927



pag.7


Fra i volumi della Raccolta Nazionale dei Classici che Giovanni Papini dirige per la casa editrice fiorentina Rinascimento del Líbro, è questo delle Rime di Michelangiolo. L'edizione uscirà tra breve in veste di lusso: stampa a due colori, magnifici caratteri bodoniani e tanto buon gusto da richiamarci alle più tradizioni Italiane nell'arte del libro. Ma il pregio maggiore è conferito dalla prefazione che Giovanni Papini ha scritto per questo volume e della quale ci consente di pubblicare fin d'ora una parte per i lettori dell'«Avvenire d'Italia»

   Quella che í dottori dei pazzi chiamano grandiosamente «megalomania» a Michelangiolo non si può negare. Se vuol fare un gigante pensa di scolpire addirittura un monte; se fa una cupola vuol che sia la più alta e la più vasta del mondo; se immagina una tomba vuol che attorno al cadavere nascosto vegli tutto un popolo di statue. Un uomo cosiffatto non può contentarsi d'un'arte sola, lui che a mala pena ha dato una sbozzatura dei suoi sogni ricorrendo a quasi tutte. Sembra un mutolo che si aiuti coi gesti, uno storpio che si appoggi su due bastoni, un mezzo cieco che ricorra a due paia d'occhiali. Era, come tutti i creatori terrestri, uno la cui potenza consisteva nel riconoscimento della propria impotenza. I mediocri, che si credono potentissimi, non arrivano a dire la millesima parte di quel che dice chi sa d'esser balbuziente. Fra le arti che Michelangiolo chiamò in soccorso per tracciare qualche sillaba di quel miracoloso discorso che leggeva confusamente sulla sterminata pagina dell'universo, l'ultima fu la poesia. Alla poesia affidò quel che gli pareva di non poter manifestare compiutamente coi blocchi di marmo e le facciate di pietra: la soave tortura dell'amore, il pensiero della doppia morte, il rimorso della vita sciupata. Nelle statue — se togli forse qualche opera giovanile — l'amore, l'amore della creatura per la creatura, non c'è. Vedi la fierezza del guerriero in David, del profeta in Mosè; la tristezza del dominatore in Lorenzo, dello schiavo nei Prigioni. Le allegorie della Cappella Medicea son tutte ansia, cupezza, stupore; la Cappella Sistina è il trionfo della Creazione e del Castigo. MicheLangiolo però, amava -- e con tutta l'anima: donne e uomini. Si, anche uomini: non già nel modo che l'Aretino nella sua sconcia malignità sconciamente immaginava ma come un contemplatore di bellezza può amare nella forma perfetta d'un corpo, un luminoso modello, un'opera d'Iddio,

Quel che nel tuo bel volto bramo e 'mparo,
e mal compres'è dagli umani ingegni, chi vuol saper convien che prima mora
.

dice Michelangiolo stesso a Tommaso de' Cavalieri: e altrove:

E se 'l vulgo malvagio, sciocco e rio di quel che sente altrui segna e addita non è l'intensa voglia men gradita, l'amor, la fede e l'onesto desio.

   E se l'amore suo è sempre tormentato e doloroso si deve alla tempra della sua anima alta, che di poco non poteva saziarsi, e anche, forse, al «vulgo malvagio» che non capiva «l'onesto desio» del venerando vecchio. Se, spesso s'incontrano movenze e motivi del Petrarca — e di Dante, chè tolse mossa e rima, per una lirica di sdegno, dalla famosa canzone pietrosa «così nel mio parlar voglio esser aspro» — non è da far meraviglie. E quelle sue antitesi paradossiste di vita nella morte e di fuoco nel ghiaccio, che posson sembrare scaglie di petrarchismo secentista, sono, talora, sforzi, per dire l'indicibile, per esprimere l'inesprimibile, per mettere in parole le viventi contraddizioni della vita. Sono storcimentì di concetti come le sue statue sono, a volte, stordimenti di membra: materia che si divincola per diventare spirito. E bisogna pensare che non era, rella poesia, così addestrato e sicuro come nell'altre arti — si ricordi che anche nella pittura e nella scultura cominciò contraffacendo — e d'altra parte il fraseggiare dantesco e petrardesco era, nel cinquecento, come un secondo vocabolario, talmente comune ch'era divenuto quasi anonimo: la sua umiltà come poeta è dimostrata dal fatto che avendo cominciato una raccolta di versi per la stampa la tralasciò e non ne fece di nulla: le sue rime furori pubblicate (e male) dal nipote quasi mezzo secolo dopo la sua morte.
   Quest'ufficio complementare e suppletorio della poesia si addimostra anche in altri temi che vi ricorrono: ad esempio il burlesco. C'era in lui, come s'è detto, anche il fiorentino faceto a cui non dispiaceva motteggiare e sorridere: il Berni non l'ammirava soltanto per le sculture e il Buonarroti, rispondendo a nome di Fra Bastiano, gli dimostrò che poteva stargli a fronte anche nella giocosità. Il sonetto caudato a Giovanni da Pistoia, le ottave che celebrano ironicamente una bellezza di contado sull'orme della Nencia del Magnifico, il lamento della vecchiaia in terzine celianti, son le prove scritte dell'umore festoso a volte corbellatore di colui che s'immagina sempre accigliato come il suo Geremia. Amava, oltre il riso, anche la natura eppur non v'è, nell'arte sua figurata, un aperto paese di campagna. Il suo mondo è tutto occupato dai corpi umani. A gran fatica, forzato dal testo sacro, dipinge qualche nudo tronco nella volta della Sistina perchè il serpente vi si possa avvoltolare o Adamo appoggiare o un annegante aggrappare; nella Santa Famiglia ch'è agli Uffizi là nel fondo, dove i quattrocentisti avrebbero goduto a distender prati e fiori, lui riempie lo spazio di atleti nudi. Rimedia, come può, nelle rime: non soltanto in quelle ottave che son verso la fine e dove loda — ripigliando un tema caro al Poliziano e ad altri — la vita rusticale ma qua e là dove gli capita, con tocchi brevi ma nuovi e forti: come quando descrive, nel sonetto sulla Notte, l'opera agreste:

Quel che resta scoperto al sol, che ferve per mille vari semi e mille piante, il fier bifolco con l'aratro assale

dove l'aratore è visto nel suo aspetto eroico di guerriero armato di ferro alla conquista del pane. A Dante non potè fare, come desiderava, una degna sepoltura ma gli consacrò due sonetti, che son fra i i più belli che abbia mai scritti; al padre che amò sopra tutti gli altri di sua famiglia — benchè non corrisposto sempre neppur da lui — rivolse, in occasione della morte, una delle più accorate e profonde poesie. E l'amore per la notte, la riconoscenza al sangue divino di Cristo, il pentimento del tempo sperso nelle «favole del mondo» e sopratutto il senso incombente delle morti prossime — la morte del corpo, certa, e quella d'ogni speranza, temuta — riempiono le carte che, da vecchio, quando il mazzuolo era troppo peso al braccio, egli componeva, forse di notte, nella sua casa a Macel dei Corvi, al lume d'una lucerna. La morte, specialmente, occupava il grande spirito che vedeva l'appressamento della fine. Come tutti i grandi artisti voleva sottrarre alla morte, coll'arte che ferma ed eterna, qualche creatura più cara e perfetta. Sempre gli tornava al pensiero la speranza che la scultura potesse vincere la caducità della carne colla durata della forma bella fissata in pietra per sempre. Ma, come platonico, gli stava pur fisso in mente il ricordo dell'universale prigionia; le figure sono incarcerate nello scoglio e l'anime incarcerate nel corpo. Se lo statuario può liberare, coi ferri, il Dio ch'è nel masso, il supremo Artista, ch'è Dio, libera l'anime imprigionate mediante la morte della carne. Michelangiolo, platonico e cristiano come gli amici più vecchi della sua adolescenza fiorentina, si sentiva quasi taumaturgo discioglitor di bende dinanzi il marmo, ma si sentiva, al par di Dante, anche verme che la morte, rompendo il bozzolo d'argilla, tramuta in farfalla. E torna sempre, nei suoi versi, l'ossessione della morte: non c'è, si può dire, componimento dove non apparisca il nome, il terrore, il desiderio di lei. Anche parlando d'amore non può scompagnarlo mai dal pensiero della morte.

L'anima mia che con la morte parla e seco di sè stessa si consiglia .........
Con la morte m'accordo stanco e vicino all'ultima parola.


E tentò perfino (v. il n. CXXXVI) un Canto degli scheletri, che ricorda, in tono più alto, un canto carnascialesco di Antonio Alamanni. Raccontano che in casa sua, a mezza scala, aveva disegnato uno scheletro di chiaroscuro, ritto, con sulle spalle una cassa ov'era scritto:

Io dico a voi, dal mondo avete dato l'anima e 'l corpo e lo spirito 'nsieme. in questa cassa oscura è 'l vostro lato.

L'imminenza della morte lo riportava al pensiero di Dio e chi pensa realmente a Dio non lo vede soltanto come Padre ma come Giudice: come egli stesso aveva dipinto Cristo nella parete spettrale della Sistina. Un santo, come San Bonaventura, può invocare Cristo qual «torrentem voluptatis» ma un idolatra della forma, un fattore di «bambocci» anche uno spirito magno, sa che ha più d'una ragione di tremare. E allora Michelangiolo dimentica gli umani amori e la bellezza delle creature e dei boschi, e perfino l'arte sua che gli era «idol' e monarca» e vede in sè null'altro che un peccatore inginocchiato sulla terra, che si vergogna della sua vita, in apparenza gloriosa, e ricorda soltanto quella goccia di sangue divino che lo ricomprò e che può salvarlo. E vuol che Dio lo tolga a sè stesso, faccia di lui tutt'un altro, purché sia salvo.

Signor, nell'ore estreme, stendi ver me le tue pietose braccia tomm'a me stesso, e famm'un che ti piaccia.

Tutte le poesie dì penitenza o di adorazione di Michelangiolo vecchio son belle e tra le più bello che abbia la nostra letteratura religiosa: tra il Petrarca e il Manzoni, in quattro secoli pieni, non c'è che lui. Soltanto alcuni sonetti della Colonna gli posson far compagnia. Quell'amore al Cristo che non aveva potuto dipingere nel Dio corrucciato del Giudizio, quella speranza d'eternità e di beatitudine che appena era adombrata nei volti degli Annunziatori, trovano voci scolpite e immagini d'umiltà sopraffatta nelle rime mistiche della vecchiezza. Ormai il povero artiere aveva detto tutto quel che le sue forze gli avevan permesso di dire: aveva inalzato in San Pietro la più maestosa casa d'Iddio aveva raccontato la storia d'Iddio dal Fiat Lux, al Dies Irae, nella Sistina, aveva finalmente confessato al Dio cui credeva la sua miseria e le sue colpe e l'aveva invocato con soavi e nobili preghiere perchè gli risparmiasse la «morte seconda»: poteva ormai, il vegliardo stracco, morire. Non contento nè sazio, chè fino agli ultimi giorni s'adoprò col braccio cadente a una Pietà, ma la sua scontentezza ha lasciato agli uomini alcune delle poche opere e delle poche parole — frammenti d'un mondo intravisto — che possono consolarli d'esser figliuoli della donna e della terra.
   Anche nella poesia il contrasto tragico della sua doppia anima si rivela e se n'ha sofferto come forse nessun altro mai è stato pur l'origine di quella solennità problematica che ha stupefatto quanti son vissuti dopo di lui. La vera tragedia di Michelangiolo non fu la tomba di Giulio ma la sua natura bifronte. La sua grandezza e la sua sventura fu di contenere a un tempo una passione d'ebreo antico e un genio di greco antico. C'erano in lui, legati insieme, gli spiriti di Isaia e gli spiriti di Fidia. Era ad un tratto l'apocalittico che pensa all'eternità, ai tormenti, al giudizio di fuoco e terrore e subito dopo l'amatore delle belle forme, della plastica perfetta, dei corpi. Si ricordi il periodo della sua formazione, ai tempi del Magnifico. Il giovinetto, in quella festosa e torbida Firenze di fin di secolo, era stato negli stessi giorni affascinato dalla grazia ellenica del Poliziano e terrificato dall'impeto biblico del Savonarola. E tale rimase sempre. Era lo stesso uomo che leggeva l'Antico Testamento e insieme si dilettava nelle soavità del Petrarca; che amava Platone e scherzava col Berni; che ora imitava la maschiezza di Dante e ora le ottave della Nencia di Barberino; che passava dai gravi colloqui con Vittoria Colonna alle buffonate d Topolino. In questo etrusco risuscitato riviveva l'anima tetra d'un profeta dell'esilio e lo spirito d'uno Statuario d'Atene. Da questa contraddizione, che fu la tortura nascosta d'una vita di semidio mutilato, è nata anche la sua poesia che momenti è idolatria d'un bel viso perituro e soltanto presso alla morte s'inalza fino ad esser preghiera commossa all'Eterno.


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